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PIAZZA DELL'ARENGO ASCOLI PICENO

PIAZZA DELL'ARENGO ASCOLI PICENO
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Giovanni Battista Mariani

Piazza Arringo, detta anche piazza dell'Arengo, è la piazza monumentale più antica e di maggiori dimensioni della città di Ascoli Piceno.

Di forma rettangolare, la caratterizzano alcuni dei più importanti edifici cittadini, il palazzo dell'Arengo o palatium Aringhi, iniziato alla fine del XII secolo, principale edificio pubblico, il duomo di Sant'Emidio, il battistero di San Giovanni, il complesso del palazzo vescovile, con all'interno il museo diocesano, palazzo Panichi, sede del Museo Archeologico.

La denominazione della piazza trovò origine nel periodo medievale quando Ascoli divenne libero comune ed utilizzò questa sede per le riunioni popolari dei parlamenti definiti anche arringhiarenghi o arringhe: assemblee cittadine che si adunavano per decidere e deliberare. Questa fu il centro propulsore degli accadimenti più importanti della vita sociale della città ed alcuni autori la identificano come il luogo in cui sorgeva uno degli antichi fori ascolani.

Giuseppe Marinelli riporta che nell'anno 1152, nel centro dello slargo, fu elevata una tribuna in pietra destinata ad ospitare gli oratori. Da questa il popolo ascolano ascoltò san Francesco d'Assisi, nel 1215, e san Giacomo della Marca, nel 1446 e successivamente nel 1471.

Nel maggio del 1355, dopo la cacciata di Galeotto I Malatesta e Vanni di Vendibene, vi furono redatti gli Statuti del Popolo che sostituirono gli Statuti del Comune.

In epoca medioevale al centro della piazza vi era una gigantesca pianta di olmo di cui si rinnovava la piantumazione ogni volta che l'albero moriva. Sotto la sua chioma si riunivano tutti coloro che amministravano la giustizia e discutevano della res publica. Dalla Cronaca Ascolana di Francesco Bartolini d'Arquata, del giorno 7 febbraio 1369, si apprende che l'olmo della piazza cedette sotto alla tempesta di vento che investì la città. Il Bartolini scrisse: «cecidit ulmus maxima et antiquissima, quae stabat in arengho». La pianta fu rimpiazzata da un nuovo albero messo a dimora che non vegetò e nel 1373 fu nuovamente ripiantato. Di quest'ultimo si trovano tracce nei documenti dell'epoca ed in quelli della fine del XV secolo. La pianta rimase in vita ancora per cento anni, ma quando si seccò non fu più sostituita.

Nel 1882 la piazza fu arricchita dal monumento a Vittorio Emanuele II, statua realizzata da Nicola Cantalamessa Papotti e collocata in asse con l'ingresso del palazzo comunale, e da due fontane. Dopo la seconda guerra mondiale l'effigie del re fu rimossa e collocata nel 1961 presso i giardini pubblici di corso Vittorio Emanuele.

Nel 1887 con la demolizione della piccola chiesa di San Biagio che si trovava al suo interno nelle vicinanze del battistero, la piazza subì una modifica che comportò un visibile ampliamento nella parte nord-est.

Piazza Arringo ha da sempre ospitato parate militari, giostre e tornei legati alle festività religiose in onore del santo patrono. Tra i tornei si ricorda quello dell'anno 1462 reso famoso dalla vittoria della gentildonna ascolana Menichina Soderini che batté Ludovico Malvezzi di Bologna in una competizione a cavallo. Fino agli anni Trenta del XX secolo la piazza era anche sede dei fuochi d'artificio della festa patronale.

Il sagrato della cattedrale ospita la cerimonia dell'Offerta dei Ceri, la sera precedente la Giostra della Quintana in onore di Sant'Emidio.

La piazza, dalla forma rettangolare irregolare, con i due lati lunghi divergenti (elemento più evidente sul lato settentrionale, opposto al Palazzo Comunale), presenta delle dimensioni imponenti: 140 metri di lunghezza, 56 la larghezza massima, circa 27 quella minima, per una superficie di circa 3900 m².

La piazza ha otto accessi, il più ampio dei quali è quello sul lato occidentale, nel luogo dove anticamente esisteva il palazzo Miliani, caratterizzato da un monumentale portale realizzato da Giuseppe Giosafatti, smontato nel 1803, quando l'edificio apparteneva alla famiglia Odoardi, e trasferito all'ingresso del giardino di un altro grande edificio di loro proprietà, che si apre in Corso Vittorio Emanuele. La forma della piazza ricalca presumibilmente quella del Foro, che era inquadrato da edifici civili e religiosi, le cui fondazioni possono essere visibili ad esempio nel piano terra del Palazzo dell'Arengo.

I due lati corti sono occupati da un edificio dalle forme cinquecentesche (sul lato occidentale), che rappresenta quanto rimane del palazzo Miliani, mentre il lato opposto è chiuso dal battistero e dalla cattedrale.

Il lato settentrionale ospita, nella sua prima metà, edifici le cui facciate presentano rimaneggiamenti otto novecenteschi, ma di sicura fondazione medievale. Prima della facciata settecentesca del rinascimentale Palazzo Panichi, sede del Museo Archeologico, è un edificio che presenta forme cinquecentesche, rimaneggiato nell'Ottocento. La parte terminale della piazza, adiacente al Battistero e anticamente occupata dalla chiesa di San Biagio, ospita un palazzo quattrocentesco, delimitato da una cornice a punta di diamante.

Il lato meridionale presenta la facciata del palazzo dell'Arengo, lunga 65 metri, realizzata dai Giosafatti in epoca barocca e caratterizzata dal portico centrale a cinque arcate, entro cui si apre il portale realizzato nel 1658 da Silvio Giosafatti, due ordine di finestre inquadrate da erme (o termini), e vari stemmi del XVII secolo. Segue il Palazzo Roverella, prima delle parti che compongono il complesso dei Palazzi Vescovili. L'edificio fu eretto a partire dal 1532 su commissione del vescovo Filos Roverella, come attestato dall'epigrafe posta in facciata, caratterizzata dall'ordine inferiore in bugnato su cui si aprono due feritoie e tre ordini di finestre, separati da cornici marcapiano. Sullo spigolo corrispondente al secondo ordine di finestre è lo stemma del vescovo con un mascherone dalle fauci spalancate. L'interno ospita nel piano nobile il Salone di Mosè, che contiene un ciclo di affreschi raffiguranti scene tratte dall'Esodo, realizzati nel 1547 da Marcello Fogolino, mentre all'ultimo piano è la Cappella vescovile privata.

Successivamente, arretrato, si estende il cosiddetto Palazzo Marana, ala dell'edificio vescovile rimaneggiato verso la metà del XVIII secolo, dal vescovo omonimo, di cui compare lo stemma al centro della facciata, caratterizzata da due ordini di finestre riquadrate. Su questo edificio si innesta il Palazzo Caffarelli, in continuità con la facciata della Cattedrale, nucleo più antico del complesso, risalente all'ultimo quarto del Quattrocento. Sulla sua facciata sono collocate due epigrafi: una, datata 1475, dedicata al vescovo Prospero Caffarelli, sormontata dal suo stemma; l'altra è una targa marmorea romana dedicata alla Fortuna Redux, rinvenuta dallo stesso Caffarelli nell'area del palazzo, che attesta la presenza in età antica di un tempio (o un altare) dedicato a tale divinità.

La superficie della piazza ospita le due fontane realizzate nel 1882 contestualmente alla statua di Vittorio Emanuele. Realizzate su disegno di Giovanni Jecini sono costituite da vasche ellittiche di travertino con una colonna centrale sormontata da un catino. Le sculture in bronzo, di Giorgio Paci, raffigurano dei cavalli con la coda da tritone. Dello stesso autore sono i bassorilievi bronzei raffiguranti dei putti, collocati lungo il fusto della colonna.

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 A pochi giorni dal provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri, che sancisce il divieto di produzione, commercializzazione, importazione del cibo sintetico, la Casciotta d'Urbino DOP, dal Vinitaly di Verona, con l’incontro dal titolo ‘La Bellezza è nel Gusto’, nello spazio di Food Brand Marche, mira a ribadire l’importanza del cibo tradizionale, capace di rispettare la natura degli alimenti e di chi ne fa uso.L’obiettivo è anche quello di sottolineare la rilevanza degli allevamenti per l’economia del territorio e per la tutela delle tradizioni e della biodiversità, come dell’intera filiera alimentare delle Marche, con il suo patrimonio di tradizioni e saperi locali quali garanzia dell’assoluta bontà e genuinità dei prodotti nonché per la tutela della salute dei cittadini.“Una Casciotta d'Urbino Dop - secondo Paolo Cesaretti, Coordinatore del Consorzio Tutela - è molto più di un semplice alimento. Può suscitare emozioni come scoperta, brivido, stupore, sogno, prodigio, affinità e adorazione, ma anche, sebbene raramente, delusione e disappunto. Se non avesse tutte queste sfumature, non sarebbe altro che un comune cibo”.“Il cibo sintetico - dichiara l’on. Mirco Carloni, Presidente della XIII Commissione Agricoltura alla Camera dei Deputati - oltre al fatto che non può essere paragonato ai nostri prodotti della tradizione, è una grande menzogna. Per produrlo in laboratorio si devono uccidere comunque degli animali. E non è nemmeno più sostenibile. Il governo ha fatto bene a imporre il divieto - con il provvedimento approvato in Consiglio dei ministri - di vendere, importare, produrre e distribuire questo alimento. È necessario tutelare la nostra dieta mediterranea difendendola da queste nuove invenzioni che tendono a ingannare il consumatore”.Tommaso Di Sante, Presidente Coldiretti Pesaro e Urbino, difende il cibo vero da agricoltura vera: “Il cibo è un bene prezioso e di tutti ed è legato alla storia e alla cultura di un paese. Sicuri che danneggerebbe l’economia e l’immagine del made in Italy nel mondo, con il rischio di monopolio da parte di alcune grandi industrie del settore, il cibo sintetico metterebbe a rischio anche la salute dell’uomo, dato che non conosciamo con certezza gli effetti a lungo termine. La dieta mediterranea italiana rappresenta un patrimonio da valorizzare in quanto modello salutare per eccellenza e di rigoroso rispetto del territorio e della biodiversità”.Francesco Torriani, Presidente Consorzio Marche Biologiche: “Bene prendere posizione contro la produzione delle carni sintetiche, contraria a un modello produttivo che è molto lontano dalla nostra cultura e da un modello produttivo legato alla filiera agricola, ma attenzione a non usare strumentalmente il tema della produzione delle carni sintetiche per non affrontare il vero argomento che invece, come sistema agroalimentare italiano, ci coinvolge direttamente e verso il quale abbiamo le nostre responsabilità ovvero quali politiche di sviluppo prevediamo per la nostra zootecnia e per i nostri allevamenti, in un contesto dove diventano sempre più evidenti gli effetti negativi della crisi climatica e ambientale e dove le sensibilità culturali ed etiche dei consumatori ci chiedono sempre più sostenibilità ambientale e benessere animale? E’ evidente allora che la questione delle carni sintetiche deve diventare l’occasione non solo per dire no ad un modello produttivo totalmente avulso dall’agricoltura, ma anche per promuovere e qualificare ulteriormente il nostro modello produttivo zootecnico e renderlo sempre più sostenibile e in linea con le esigenze dei consumatori”.Anastasia Ciotti del Consorzio Tutela Oliva Ascolana del Piceno Dop: “L’Oliva Ascolana del Piceno Dop non ha nulla a che vedere con il cibo sintetico. E’ un prodotto principe di un piatto della tradizione antica ascolana, che contraddistingue la nostra città e mai potrà essere modificata introducendo nella ricetta fake - food”.Nata dal latte (ovino 70-80% e vaccino 30-20%) di animali liberi, sani e felici, lavorata ad arte da maestri casari, veri custodi delle nostre tipicità gastronomiche e dell'ambiente, la Casciotta d’Urbino Dop, regina della tavola sin dal ‘500, è un’eccellenza agroalimentare italiana e marchigiana, simbolo della provincia di Pesaro e Urbino, il primo formaggio ad aver conquistato la Denominazione di Origine Protetta. Protagonista di una storia d’amore secolare con il suo ambasciatore più illustre, Michelangelo Buonarroti, spicca per la sua “strana” lettera S. Una storpiatura che, si dice, sia dovuta a un errore di trascrizione di un impiegato ministeriale e che la differenzia dai formaggi che, come lei, derivano il loro termine identificativo dall'antico "cascio", variante linguistica territoriale del più diffuso "cacio".La Casciotta d’Urbino Dop divenne una specialità distintiva marchigiana con il Signore del Ducato di Urbino, Federico da Montefeltro, che decise di proteggere il suo territorio dalle scorrerie dei pastori transumanti agevolando l’uso dei pascoli per gli allevatori locali. La produzione di piccole forme rotonde, morbide e dal sapore delicato si affinò fino ad arrivare agli anni ’60 del secolo scorso quando le “vergare”, donne di casa del pesarese dedite all’allevamento del bestiame, composero la ricetta. Per tutelarne l’eccellenza, al Disciplinare si affianca il Consorzio di Tutela Casciotta d’Urbino Dop che si occupa anche della sua promozione e valorizzazione.Anche il gusto è altrettanto inconfondibile: dolce e delicata, ha il sapore del burro e del latte fresco col quale viene prodotta. Friabile e molle, all’olfatto è fragrante e aromatica. Una vera perla, versatile e perfetta per impreziosire le ricette …e le colazioni più diverse!"Preparare un piatto - conclude Paolo Cesaretti - richiede creatività, altruismo. Coinvolge i cinque sensi: gusto, olfatto, udito, vista e tatto, che si combinano sapientemente e si amalgamano insieme. È compito di Otello Renzi, animo magnanimo, generoso e piacevolmente epicureo, trasformare ciò in arte. Creare questo piatto di spaghetti biologici, Casciotta d'Urbino e olive Ascolana del Piceno facendone un incantesimo, abbinandolo al vino Bianchello”.L'evento, moderato dalla giornalista Veronique Angeletti, è a cura del Consorzio Tutela Casciotta d’Urbino Dop, che, sin dalla sua nascita, ha avuto il merito di aver recuperato e diffuso su ampia scala la preparazione della Casciotta d’Urbino e la sua tradizione storica.
Il carnevale di Offida
Il carnevale di Offida
Il carnevale di Offida (in dialetto offidano "Lu bov fint" e "Li Vlurd") è lo storico carnevale che si svolge nell'omonima cittadina marchigiana in provincia di Ascoli Piceno.La concezione del Carnevale è profondamente radicata nella popolazione offidana, tanto che le feste carnevalesche tendono ad avere un carattere di ritualità, che permea l'intera città.Anche se si respira un'immancabile aria di modernismo specie nella musica e nei balli, la memoria storica del Carnevale, in quelle sue tradizioni particolari, rimane e cerca di perpetuarsi nelle nuove generazioni.Il Carnevale offidano si svolge ogni anno secondo un rituale fissato dalla tradizione: inizia ufficialmente il 17 gennaio, giorno di Sant'Antonio Abate, e termina il giorno delle Ceneri.Il giorno della "Domenica degli Amici", che precede di due settimane il carnevale, la fanfara della "Congrega del Ciorpento" esce rumorosa dal portone del cinquecentesco palazzo Mercolini per annunciare che si è entrati in pieno clima carnevalesco.Le Congreghe, che hanno lo scopo di aggregare, tra loro, in genere parenti e amici, desiderose di partecipare alla baldoria carnevalesca, iniziano il giro del paese a ritmo di musica sempre più incalzante in prossimità del clou della festa.Esse hanno un ruolo fondamentale nello svolgimento dell'evento, la mattina del Giovedì Grasso ricevono in consegna, dal Sindaco, le chiavi della città e, da quel momento, il paese è simbolicamente nelle loro mani, così che tra allegria ed euforia le congreghe si impossessano della città.Piazza del Popolo, nel bove finto 2016Seguono i "veglionissimi" del sabato, domenica e lunedì presso Il Teatro Serpente Aureo, la mascherata dei bambini del giovedì grasso, la caccia a "Lu Bov Fint" (il bove finto) del venerdì, la festa in piazza che dura tutto il pomeriggio del martedì grasso che si conclude con la fantasmagorica sfilata dei "Vlurd".Persone dei paesi vicini e turisti, per l'occasione, giungono ad Offida, non per assistere da spettatori a sfilate di grandiosi carri allegorici, ma per essere coinvolti in un'autentica festa di popolo dove, quasi attori di rappresentazioni il cui valore simbolico cede più a quello reale delle forze vitali e istintive.L'ultimo giorno (martedì grasso) di Carnevale tutti in Offida si mascherano, alcuni sbucando da ogni parte con indosso il tipico "guazzarò" (saio di tela bianca con fazzoletto rosso al collo), altri mascherati con costumi più diffusi ma col viso tinto di vari colori, per inondare la piazza e scorrazzare per le strade tra urla, danze, scherzi di ogni sorta e lanci di coriandoli.Centinaia di uomini e donne mascherati, con lunghi fasci di canne accesi sulle spalle, in fila indiana, tra urla e danze selvagge, percorrono il Corso che sembra uno strisciante serpente fiammeggiante, quindi inondano la piazza principale al cui centro dispongono i "bagordi" ancora in fiamme; le maschere come impazzite corrono a cerchio intorno al falò mentre urla e canti si fondono tra vortici di fumo e miriadi di scintille di fuoco brillanti nell'aria. Quando il fuoco pagano che incendia la piazza con il rito bacchico dei "Vlurd" si spegne, torna sovrano il silenzio, foriero di pace quaresimale.